Questa breve riflessione intende affrontare, innanzi tutto, un interrogativo preliminare: la differenza tra l’uomo e la donna riguarda anche la filosofia, oppure è una questione che interessa solo, da una parte, le scienze umane, e, dall’altra, la teologia?
Si può sicuramente rispondere che la differenza è un problema filosofico, se si riesce a mostrare che essa non è esclusivamente un dato biologico, o una semplice costruzione storico-culturale, ma è radicata nella struttura costitutiva dell’essere umano che esiste solamente nella concretezza dell’uomo e della donna. Non è, infatti, possibile alcuna considerazione astrattamente dualistica che voglia separare, nel soggetto, le dimensioni spirituali dalla corporeità, ma quest’ultima è integralmente segnata dalla differenza sessuale per la quale il corpo è sempre quello di un uomo o di una donna. La riflessione su tale differenza, quindi, non è un capitolo a sé stante della filosofia, ma attraversa, o, più realisticamente, dovrebbe attraversare trasversalmente l’intera antropologia che non può proporre le sue affermazioni senza tenere conto di questo fatto originario che è inscindibile dall’esistenza umana nel mondo.
La questione iniziale sul significato filosofico della differenza diventa, così, quella su come sia possibile articolare, su uno stesso piano, l’unità dell’identica natura umana e la dualità della differente appartenenza sessuale. La differenza, cioè, è certamente originaria, come si è già accennato, poiché è inscindibile dall’esistenza, ma, d’altra parte, non è in alcun modo ontologica, perché coinvolge due esistenti che condividono la medesima umanità, ponendoci di fronte al paradosso di una realtà, quella umana, che è nello stesso tempo una e due.
Si presenta qui un problema dalle radici antiche, che ha sempre caratterizzato la storia del pensiero, o perlomeno la tradizione filosofica occidentale, ossia quello di come sia possibile conciliare unità e molteplicità senza che il rapporto tra l’una e l’altra si configuri immediatamente come una subordinazione gerarchica tra enti che, in quanto differenti, non possono avere l’identico valore. In altri termini, la questione è quella della relazione tra il soggetto e l’alterità che chiede di essere riconosciuta per se stessa, senza essere ricondotta ad un modello di cui essa sarebbe una copia deformata.
Storicamente, come si sa, la donna è stata prevalentemente considerata come la copia carente dell’uomo, che ha incarnato il prototipo dell’umano, ma tale visione non rende giustizia né alla donna, considerata inferiore, né all’uomo che resta prigioniero di una solitudine che esclude ogni vera relazionalità reciproca. L’unità della natura umana deve, quindi, continuare a costituire il punto di partenza di ogni riflessione antropologica, ma è necessario acquisire la consapevolezza che essa è già intrinsecamente duale e che, pertanto, qualsiasi affermazione sul soggetto è, in realtà, quella su due soggetti, l’uomo e la donna, aventi la medesima dignità, ma irriducibili l’uno all’altro.1
Impostando la questione in questi termini, è evidente che nessuno dei due può costituire il modello di umanità, al quale l’altro debba uniformarsi, ma, al contrario, l’umanità è tale proprio perché è concretamente incarnata nel differente vissuto di ciascuno dei due. In tal modo, si pongono anche le premesse per una comprensione profonda e non riduttiva della relazione tra l’uomo e la donna, perché nella condivisa identità umana si fonda la possibilità di un rapporto capace di coinvolgere l’intero soggetto, mentre, grazie alla differenza, ciascuno dei due può ricevere dall’altro un arricchimento, che, altrimenti, resterebbe inaccessibile.
Come si è detto inizialmente, questa è solo una riflessione introduttiva che non intende certamente proporre una trattazione filosofica dei temi relativi alla differenza tra i sessi, ma solamente porre le basi che rendano possibile, in seguito, tale trattazione, escludendo ogni visione riduttiva e parziale di quella che è la realtà umana, identica e differente, dell’uomo e della donna.