I conflitti del mondo del lavoro sono troppo spesso affrontati tenendo in scarsa considerazione la persona del lavoratore. La produttività del lavoro è considerata l’obiettivo prioritario dei provvedimenti e di conseguenza si legifera in funzione strumentale al mercato mirando a punire chi non lavora o produce poco. Particolarmente presa di mira é la valutazione dei pubblici dipendenti: essa appare palesemente condivisibile, eppure: quis custodiet custodes? Se sottoscriviamo la provocazione “licenziamo i nullafacenti e premiamo i veri lavoratori” nonché la relativa proposta di un organismo indipendente per la valutazione delle strutture pubbliche e della loro efficacia, ci dovremmo domandare: è davvero questa una difesa dell’equità? Riuscirà davvero a promuovere una pubblica amministrazione più giusta e fattore di sviluppo solidale per il paese?
Intanto bisognerebbe distinguere tra nullafacenti e fannulloni. L’aggettivo “fannulloni” porta con sé un significato negativo, legato a coloro che non fanno niente o fanno troppo poco per pigrizia, furbizia, menefreghismo. I nullafacenti possono essere persone che pure fanno poco e nulla, ma non di rado non per colpa loro. Vi possono essere guasti dell’ente che dà lavoro e in molti casi cattivi comportamenti dei dirigenti, che non fanno bene il loro lavoro, non giudicano con equità, non valutano in base alle capacità, al lavoro svolto e al modo in cui è stato svolto, ma in base ai propri interessi, premiando talvolta persone immeritevoli.
Un organismo indipendente per valutare l’efficienza delle strutture pubbliche dovrebbe tenere conto dell’attribuzione delle reali responsabilità, se del lavoratore oppure se della cattiva amministrazione. Non sono pochi i casi di mobbing, nei quali il lavoratore non lavora perché il capo non vuole, lo emargina, non gli attribuisce incarichi, lo punisce non soltanto nella valutazione finale ma soprattutto a monte, nell’escluderlo dalla cerchia di coloro che sono messi nelle condizioni di produrre. Bisogna stare attenti a che questi “Nullafacenti” non vengano puniti più volte, dal datore di lavoro, dalla famiglia, dall’”organismo indipendente”, dal taglio dello stipendio e infine dalle conseguenze che inevitabilmente ha, sulla psiche e sul corpo, la morte lavorativa della persona.
In generale si pensa che la punizione e la paura del castigo provochino ordine e produttività. Tutti sanno però che si può stare 24 ore sul posto di lavoro e avere la testa altrove, dare al servizio che si sta svolgendo un terzo delle proprie potenzialità riservando il resto a ciò che si ritiene primario nella propria vita. E’ ciò di cui si accusano particolarmente le donne, con la testa persa dietro i guai della famiglia. Si può anche obbedire maledicendo colui che ci impone ciò che non vogliamo, come si può stare inchiodati alla scrivania, leggendo fumetti o scrivendo poesie.
L’obiettivo primario dovrebbe essere quello di avere impiegati che non hanno bisogno di un capo. E’ quello che cercano di realizzare gli specialisti in coaching, ovvero business coach (allenatori in affari).
Si tratta di privilegiare una prospettiva significativamente diversa dalla severità e impersonalità della punizione mirando a creare un ambiente umano: non si contraddice la terapia d’urto ma la si integra con ciò che è più essenziale e precedente al castigo da infliggere ai fannulloni: il buon vivere nell’azienda.
Si tratta di trasformare la mediocrità di un lavoratore come “Fracchia” (il famoso personaggio cinematografico) in una persona che prende gusto a ciò che fa e valorizza pienamente i suoi talenti. E’ un’arte che richiede lo sviluppo integrale della persona capace di vedere nel lavoro una espressione importante del suo stare al mondo, in maniera piena di senso e che riesce a tradurre questo suo atteggiamento verso il lavoro in pratiche lavorative e azioni di cooperazione.
Per chi lavora è fondamentale stare con un leader capace di portare avanti un progetto intelligente con esperienza, trasparenza, coerenza, favorendo una impresa umana, in cui ciascuna persona si apre ad incorporare le nuove tendenze e genera ricchezza, il che è molto più che semplicemente guadagnare soldi.
Si tratta di guardare l’espansione economica e la prosperità non come fini in se stessi. Il leader del XXI secolo è una persona che si mette a servizio dei più, che insegna attraverso l’esempio, che sa generare equipe solidali, formate da persone che riescono ad esprimere nel lavoro i propri talenti e applicarli in modo fruttuoso per tutti. Una delle chiavi che un dirigente deve avere per imparare ad essere vero leader è vedere l’impresa come un tutto che risulta dall’equilibrio e dalla integrazione, piuttosto che come un ingranaggio di mera efficienza tecnica.
E’ questione di essere allenati a pensare in termini di “noi” piuttosto che di “io”; è necessario che gli impiegati partecipino attivamente alla esecuzione della visione d’impresa.
L’epoca dell’ordine realizzato dietro un comando è ormai tramontata. Oggi siamo nell’era della sinergia, che reclama doti umane e motivazioni convincenti.
Forse c’è in questo una dose di idealismo, ma nelle cose umane il puro realismo è controproducente. Abbiamo bisogno di guardare alto se vogliamo che aumentino sempre più coloro che non vedono l’ora di andare in pensione quando poi, “finalmente” staranno con le mani in mano. Dopo una vita di orari stressanti, di cartellini da timbrare si prenderanno dei giorni di assoluto riposo, faranno qualche viaggio, ma il più delle volte andranno alla ricerca di fili spezzati, di progetti interrotti per i quali continuare a faticare forse anche più di prima.
E’ la dimostrazione che gli esseri umani desiderano semplicemente lavorare nel modo che credono più confacente alla loro possibilità, vogliono poter dire liberamente dei sì e dei no, spendere le proprie energie senza risparmiarsi, con mezzi magari più poveri ma nella pace di una organizzazione rispettosa di quelle esigenze umane che non stanno nei programmi di produttività.
Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese