Preziosa la detective del Botswana. Quando l’Africa esprime al femminile una saggezza antica venata di sorriso

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«“Come stiamo andando?” domandò a un certo punto al signor Molofololo. E lui rispose: “Non sta ancora succedendo niente, signora. Deve avere pazienza. Qui non è come in cucina”. La signora Ramotswe si chiese se fosse il caso di protestare per quella frase, poi decise di no».

Siamo in Botswana, la scena è una banale partita di pallone; ma chi legge L’ora del tè (romanzo di Alexander McCall Smith, traduzione di Stefania Bertola, Parma, Guanda, 2011, pagine 249, euro 16,50) s’innamora d’un fiato dell’autore, della protagonista, dei comprimari, dell’Africa e delle pacificanti risorse di saggezza che racchiude, specie se espresse per bocca femminile. Qualche sospetto può sorgere perché l’autore è uomo (il che non passa inosservato, nonostante la verve autoironica) neppure africano al cento per cento, da un punto di vista prettamente biografico; anche se lo è nel cuore, come si scopre via via.

Nato e cresciuto a Bulawayo in Zimbabwe, trasferitosi in Scozia per frequentare giurisprudenza a Edimburgo, docente all’università del Botswana (che ha contribuito a fondare) e poi di nuovo a Edimburgo a metter su famiglia, musicista ed esperto di diritto in campo medico e di bioetica (è stato membro del relativo Comitato internazionale Unesco), McCall Smith ha scritto trattati, racconti per ragazzi e novelle per tutti. È considerato erede di Pelham Grenville Wodehouse e di Agatha Christie, i cui colori però mescola tra loro e con la tavolozza africana, incanalando la creatività in filoni narrativi attorno a personaggi chiave, quali Isabel Dalhousie (“filosofa dilettante” che vive a Edimburgo occupandosi con discrezione delle faccende altrui), il professor dottor Moritz-Maria von Igelfeld, filologo per il quale i verbi irregolari portoghesi rivestono un’importanza esistenziale; e la titolare della prima e unica agenzia investigativa femminile del Botswana. È indubbiamente lei, Precious Ramotswe, la corda più vibrante, con risonanze che, dal giovane Paese dell’Africa meridionale di cui è fiera cittadina, raggiungono il lettore dove meno se lo aspetta, sorprendendolo quasi a ogni frase, proprio per la disarmante, e apparente, semplicità.

La capacità partecipe di McCall Smith, che ama richiamarsi esplicitamente al raffinato umorismo del narratore indiano Rasipuram Krishnaswami Ayyar Narayanaswami (1906-2001, noto al mondo anglofono come R. K. Narayan), è quella di immergersi in un microcosmo coeso e consapevole della propria identità, e tuttavia aperto e in crescita dialettica con il resto dell’Africa e del mondo.

Peraltro, a monte delle contingenze storiche che mostrano il continente africano nella luce anche violenta della sua realtà composita, mettendo in guardia da ogni semplificazione, l’elaborazione favolistico-simbolica indigena svela un cuore nel quale l’Africa tende a specchiarsi unita, non di rado personificata nei miti complessi e metamorfici che la percorrono come i griot, i savi consiglieri-cantastorie dell’Africa occidentale sub-sahariana tra i quali la parola si tramanda con valore di consanguineità (questa l’etimologia di un termine a loro riferito). E anche come i giovani studenti che oggi continuano a offrire, di solito con gran garbo, il tesoro fantastico del loro continente, rielaborato in volumetti illustrati da colorati disegni, lungo le spiagge e nei parcheggi d’Europa, per mantenersi agli studi.

In Italia Mma (titolo di cortesia, corrispondente al maschile Rra) Ramotswe è divenuta popolare nel 2003 con Le lacrime della giraffa ma è nata nel 1998 (The No. 1 Ladies’ Detective Agency, Edinburgh, Polygon) e cresciuta velocemente attraverso esperienze dolorose tra cui la perdita precoce della madre, un compagno brutale, una maternità durata pochi giorni, un padre dal duro passato di minatore («come tanti altri del Lesotho, del Mozambico, del Malawi e di tutti quei Paesi») pronto a riaccoglierla dopo i giovanili colpi di testa, salvo chiudere la generosa esistenza terrena con uno sguardo perplesso e vagamente allarmato quando la figliola dichiara l’intenzione di aprire un’agenzia investigativa investendovi il ricavato del bestiame da lui faticosamente messo insieme. Da lì alle successive, imperdibili storie — che includono l’impegnativo matrimonio con il titolare di un’autofficina e l’adozione di due bambini con problemi — l’emancipazione della signora Ramotswe, come del resto la puntuale soluzione dei casi che le vengono affidati, avviene senza affanno e non di rado attraverso l’esposizione, in quanto donna e per giunta traditionally built (sublime eufemismo per definirne la taglia robusta), a tutti gli arroganti di questo mondo, salvo ribaltare la situazione con la sola forza dell’intelligenza (educata da una lungimirante cugina) e l’evidenza di intuizioni talora infantili e paradossali. Un procedimento dove la concatenazione degli eventi e degli oggetti prevale su cavilli logici e ipotattici, come in alcune favole metamorfiche di animali e piante e uomini che alla fine rinnovano un’intera cosmogonia con tale evidenza che nessuno è portato a chiedersi perché. Nemmeno Precious: non quando si presenta al suo primo appuntamento, quello con il red tea e con la bellezza del mattino africano. Nessuna gravitasaggiunta: né serial killer né trame occulte o rivendicazioni dell’inconscio nel pacifico Botswana; tutto dipende semmai da scarpe strette o prese di corrente mal distribuite, dove qualche sbadato attacca l’aspirapolvere solo di venerdì, con conseguenze catastrofiche. Ma, tra serpenti e incidenti che pure non mancano, persino il passaggio tra vita e morte è sottratto all’ansia che sembra fare la differenza tra il vecchio mondo e il giovane Paese.

Tutti i personaggi di McCall Smith tendono a considerare con sereno distacco certi aspetti di religione istituzionale, ma Precious l’africana, con uno dei suoi serafici coup de main, ribalta anche qui la situazione senza colpo ferire. Intanto con i suoi atteggiamenti, un po’ istintivi un po’ maturati dall’esperienza e dall’esempio dei parenti buoni, quando cerca il bene di tutti prima del proprio, quando pratica un’attesa e una maieutica che le tornano pure utili come espediente investigativo. Carità con i figli adottivi, certo, ma anche con il vecchio furgoncino che le serve per lavorare, di cui maschera i rumori per timore che il marito, premurosamente, glielo sostituisca con un mezzo nuovo e brillante, sì, ma senz’anima. Carità con la rampante signorina Makutsi, l’assistente a cui la saggia Precious lascia spago sufficiente a retrocedere dalle impulsive e traballanti decisioni, non mancando ogni volta di rassicurarla, pur con qualche perplessità.

È questa la risorsa di Precious: il suo “forse” non esprime scetticismo, ma un’apertura oculata e illimitata che alla fine diventa la sua forza, e quella del lettore. «Tutti ci prendiamo cura di qualcun altro, in ultima analisi, almeno in Botswana, dove le persone ricercano e tengono in considerazione quei legami invisibili che uniscono gli esseri umani, che stanno alla base dei loro rapporti» (Alexander McCall Smith, Un miracolo nel Botswana, 2010). Ecco il genere di riflessioni cui si lascia andare la signora Ramotswe bevendo il tè e cominciando a focalizzare il caso del giorno. «Forse in mezzo a una simile profusione di amici e parenti qualcuno è solo, qualcuno ha perso la sua gente»; c’è chi non ha neppure il lusso di potersi ancorare a un nome, a una parentela. E così, ripensando all’amato padre Obed, e al motto del Botswana, dove la pioggia è un felice augurio, la detective estende la sua indagine sino alla visuale più remota: «Credeva fermamente che a suo tempo — ma non troppo presto, sperava — l’avrebbe ritrovato in quel posto che era il Botswana ma non era il Botswana, quel luogo dove cadeva una pioggerellina costante e il bestiame era felice. E forse quel giorno le persone che non avevano nessuno avrebbero scoperto che esisteva qualcuno anche per loro. Forse».

di  Isabella Farinelli

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