La spaventosa tragedia del terremoto in Nepal ha prodotto sui giornali titoli cubitali, ma forse tra di essi uno è passato inosservato: trattava della rapida evacuazione di numerose coppie omosessuali che si trovavano là ad affittare uteri per avere un bambino. La notizia è apparsa sui media internazionali solo in un primo momento, poi è sparita.
Il clamore che accompagna questo genere di notizie getta una luce momentanea su un fenomeno in rapida crescita: coppie provenienti da paesi ricchi richiedono la “produzione” di bambini ad agenzie specializzate che offrono i propri servizi utilizzando donne di paesi poveri, con le garanzie del miglior marketing, ottenendo lauti profitti. La realtà viene mascherata da eufemismi: si parla di “viaggi di maternità sostitutiva”. Pagando degli extra si può selezionare il sesso del nascituro ed esaminare geneticamente gli embrioni. Alla fine il costo complessivo arriva a qualche decina di migliaia di euro. Gli eufemismi riescono solo a malapena a nascondere la realtà: siamo di fronte al nuovo volto della schiavitù; si fanno affari approfittando di un vasto vuoto legislativo a livello nazionale e internazionale. La maternità è mercificata.
Secondo il rapporto Surrogate Motherhood – Ethical or Commercial pubblicato nel 2014 in India dal locale Centre for Social Research, siamo di fronte a un abuso evidente, anche considerandolo solo dal punto di vista commerciale. La madre surrogata guadagna tra l’1 e il 2% del costo pagato dai “genitori” per il figlio. L’aspetto economico permette di evidenziare il dato reale: una vera compravendita di esseri umani, la riduzione in schiavitù delle donne e la commercializzazione di neonati. Certamente ci sono forti ragioni perché tale pratica sia regolata dalla legge onde evitare abusi. Però bisogna chiedersi: una più accurata regolamentazione risolverebbe le questioni etiche che essa comporta?
Perciò risulta necessario far emergere le domande che nessuno vorrebbe porre. Innanzitutto, cosa provano le madri? Poi, che succederà a questi bambini, quando verranno a sapere come sono nati?
Nel rapporto pubblicato in India, sopra citato, sono riportate le reazioni di diverse donne che praticano la maternità surrogata, alle quali era stato domandato cosa avessero provato quando il bambino era stato consegnato alla coppia che lo aveva ordinato. La maggioranza ha rifiutato di rispondere. In effetti, il contratto tra i “clienti” e la “madre incaricata” precisa che quest’ultima si disinteresserà totalmente del destino dei bambini che accetta di gestare nel proprio seno, che non li considererà figli propri, per evitare interferenze indesiderabili per la vita familiare dei clienti. Esistono vari tipi di clausole di anonimato per garantire la tranquillità di tutti (gli adulti!) coinvolti nel processo. Perciò la madre surrogata dovrà sforzarsi di vivere la gravidanza con indifferenza, cercando di convincersi che non si tratta di suo figlio. Inoltre, per contratto, deve accettare le esigenze di coloro ai quali, letteralmente, ha ceduto tutti i diritti sul proprio utero. Se il bambino presenta malformazioni o non è del sesso scelto, è obbligata ad abortire.
Mi sembra interessante riportare la testimonianza di Natasha: «ho ventinove anni, sono sposata da undici e ho un figlio di nove […] sono una macchina perfetta per procreare; non lo dico io, me lo ripetono i medici della clinica Biotexcom di Kiev […] ho un figlio solo, che è la gioia più grande della mia vita. Gli altri che ho dato alla luce sono figli altrui. Non ricordo né il giorno in cui nacquero né se fossero maschio o femmina, né quanto pesassero. Non mi interessava e non mi interessa. Questi bambini non hanno nulla di me, non hanno il mio DNA, non saranno educati da me. Li ho solo messi al mondo, ho aiutato qualcuno che non poteva farlo naturalmente».
È possibile che non veda la sua dignità calpestata quando si sente definire: “una macchina perfetta per procreare”? Veramente crede di aiutare il prossimo, anche a costo della propria dignità? La sua indifferenza è sincera? Cosa le succederà, un giorno, se qualcuno di questi figli cercherà di conoscerla?
La seconda ineludibile domanda: che cosa proveranno questi figli, quando verranno a conoscenza della loro origine? Non vorranno conoscere la donna che ha accolto in sé la loro vita nascente per nove mesi? Non la considereranno parte della propria vita?
A questo punto passiamo alla testimonianza di Alana, nata grazie a una donazione di sperma: «Mio padre prese del denaro e promise di non avere nulla a che fare con me. Mia madre è stata meravigliosa ... Però il mio cammino è stato una battaglia contro il vuoto dell’assenza di mio padre e una forte difficoltà a comprendere la differenza tra il sacro e il commerciale, lo sfruttamento e la cooperazione».1
È giusto mettere al mondo bambini privandoli del senso di appartenenza, gravandoli, sin dall’inizio della loro esistenza, di un retaggio complicato, di un desiderio inappagabile di conoscere chi sono, di domande senza risposta sulla loro origine? Alcuni pensano di risolvere questi problemi invitano i genitori a essere “onesti” con i bambini sin dall’inizio, senza nascondere la loro origine; forse è meglio che occultare la verità, ma certo non appaga il desiderio di conoscere.
Siamo in un mondo complesso, dove per gli esseri umani è difficile accettare i propri limiti: ci sentiamo in grado di fare tutto e ci arroghiamo il diritto di fare ciò che vogliamo. Un’umanità affetta da delirio di onnipotenza, senza punti di riferimento per orientarsi su ciò che è bene e ciò che è male. Come Nietzsche aveva predetto, una volta tagliato il legame con il Creatore, abbiamo cancellato l’orizzonte, sganciato la terra dal sole, ed è come se stessimo precipitando in un abisso interminabile, senza sapere se sprofondiamo verso l’alto o verso il basso… vaghiamo perduti nell’infinità del nulla.2
Emerge inequivocabilmente l’urgenza di elaborare un’“ecologia umana”, per preservare l’umanità da questi deliri di onnipotenza e affermare il diritto del bambino a nascere dall’amore dei suoi genitori, un padre e una madre. Un’ecologia umana che ci aiuti a ricollocarci al nostro posto di creature, figli di un Padre che ci ama e ci perdona, e a ritrovare lo stupore di accogliere il dono della vita.
1 Preso da: http://thefederalist.com/2015/03/19/we-are-synthetic-children-and-we-agree-with-dolce-gabbana/ ultimo accesso: 12 maggio 2015.
2 Cf. F. Nietzsche, Die Fröhliche Wissenschaft (La gaiascienza), n. 125.