di Luca Pellegrini (L’Osservatore Romano – 24 ottobre 2009)
Tutti i film di Margarethe von Trotta parlano di donne. Ciascuna agisce ben radicata nel proprio tempo storico, dimostrando forte volontà e intrepida coerenza morale. Molte sono vissute nei momenti più difficili del secolo scorso: prima della rivoluzione russa, nella Germania del nazismo e in quella del comunismo, negli anni delle utopie e del terrorismo. Ogni volta la regista tedesca si è domandata per loro, con loro: "Che cosa puoi fare realmente vivendo nel tempo che non ti sei scelta? Che cosa scegli tra bene e male? Qual è l'eredità che vuoi lasciare?". Poi, quel tempo vicino le è divenuto stretto e lo ha percorso a ritroso fermandosi, in questo suo viaggio, al 1106, quando Hildegard, la futura "profetessa della Germania", il "gioiello di Bingen", la "luce del suo tempo e del suo popolo" - come la descrive nel 1979 Giovanni Paolo II nella lettera al cardinale Hermann Volk, vescovo di Magonza, in occasione dell'800° anniversario della morte di santa Ildegarda - entra a otto anni nel monastero benedettino di Disibodenberg nell'Assia-Palatinato e dove prende i voti tra il 1112 e il 1115 dalle mani del vescovo Ottone di Bamberga.
"Questa donna - ci dice la regista di Vision, in concorso al Festival internazionale del film di Roma - mi ricorda Andrej Rubliov: è moderna nella ricerca della sua identità, ma non si considera libera di sprecare i talenti che le sono stati affidati. Se Dio ti dà un talento, hai l'obbligo di conoscerlo e di realizzarlo nel luogo e nel modo che Lui ti indica. Lei ha seguito la sua strada, quella del convento, dove ha realizzato tutti i suoi doni. Non che sia facile moltiplicare i talenti ricevuti. Heidegger ha detto: "Lottare e anche ringraziare". Lei deve lottare per trovare la sua identità nel mondo di allora, come donna, come credente e come suora. Lotta, trova e ringrazia Dio".
Un insegnamento per le donne del nostro tempo?
Percorrere la strada per trovare la pienezza della propria identità e, insieme, appagare i propri desideri, ossia raggiungere la propria realizzazione personale. Le visioni sono la congiuntura tra questi due aspetti, la cerniera tra il divino e l'umano. Venivano da Dio, ma in esse Hildegard vede anche ciò che lei stessa desidera per potersi realizzare pienamente. Così avviene quando decide di fondare il monastero di Rupertsberg, vicino a Bingen, e poi quello di Enbingen, l'uno sulla sponda destra e l'altro su quella sinistra del Reno. Navigando il fiume arrivavano dal sud dell'Europa pellegrini, commercianti, uomini di lettere e di cultura. Per lei non rappresentava soltanto la fonte di sostentamento materiale per le comunità religiose, ma la possibilità di entrare in contatto con la cultura e la scienza, senza le quali non poteva vivere.
La modernità di Hildegard è dimostrata proprio dalla sua curiosità intellettuale e dal suo rapporto con il potere, all'epoca una prerogativa esclusivamente maschile.
Ci sono tre aspetti che ho trovato interessantissimi nella vita di questa santa. Il suo approccio olistico alla medicina: la sua preparazione era profondissima, ma prima di tutto prescriveva di curare l'anima e soltanto in un secondo momento il corpo. La sua sensibilità ecologica e il rispetto per la natura, i cui elementi, che lei studia fin da piccola e con grande passione, sono principi da tutelare, non da aggredire. Infine, il potere: Hildegard lo rispetta, lo affronta, lo mette in guardia dal male.
Jutta von Sponheim, che nel convento riceve il compito di educare Hildegard alla virtù e all'obbedienza, insegna alla futura badessa che l'invidia è il peccato peggiore e quello nel quale diventiamo più vulnerabili.
L'invidia per loro è strettamente collegata all'avidità e insieme sono uno dei mali peggiori. Quando Hildegard incontra Barbarossa, gli profetizza la corona imperiale, ma lo mette anche in guardia dall'avidità generata dal potere che offusca la giustizia. Hildegard potrebbe parlare con le stesse parole anche ai potenti di oggi.
Nel film le visioni di Hildegard sono solo suggerite dalla luce accecante e dall'intensità dello sguardo di Barbara Sukowa, l'attrice protagonista.
È una scelta di stile. Non era possibile tradurre in un linguaggio visivo accettabile le visioni di Hildegard. Meglio lasciare allo spettatore la libertà di intuirle attraverso le paro- le con le quali Hildegard le descrive: la loro forza evocativa è altrettanto forte.
Oggi le visioni di una santa mistica del XII secolo potrebbero essere interpretate come una debolezza psicologica o un male fisico.
Io non posso immaginare come e perché Dio permetta a una persona di vedere oltre la realtà contingente, oltre il tempo e lo spazio. Ho cercato, però, di rendere comprensibili e accettabili le visioni anche al pubblico di oggi. So che Dio ha creato tutto: la natura e l'uomo. Se dentro di noi si materializzano delle immagini e queste sono per il bene nostro e del prossimo, allora non possono che venire da Lui.
Lei descrive Hildegard come una rivoluzionaria del medioevo.
È una donna che non dice: "Io voglio", ma dice: "Dio vuole attraverso di me". Questa è la vera rivoluzione.
Il freddo della cella e il caldo dell’anima
Le mura del convento sono austere. L'anima di Hildegard infuocata. Il freddo dell'architettura, il caldo del cuore. Non sono opposti inconciliabili, nella Germania del XII secolo. Il film che Margarethe von Trotta realizza dopo anni di gestazione e di attesa e di profonda ammirazione per la santa mistica tedesca, è una riuscita alchimia tra questo buio e la luce, tra il peccato e la grazia, tra il sole che illumina gli orti e i giardini del convento e la rigidità della vita che lì si ripete scandita dalle ore della fede.
Basandosi rigorosamente sulle fonti storiche e l'aiuto fornito dalle opere stesse di Hildegard - libri profetici, sulle scienze mediche, sulle piante e le medicine, sulla musica, in un sapere per allora compiutamente enciclopedico - la regista tedesca apre le porte di ambienti chiusi e inviolabili raccontando episodi salienti della vita di Hildegard, compresi tra l'ingresso in convento e l'inizio della predicazione pubblica, scanditi da malattie e momenti di grande forza fisica.
L'impianto - apprezzato molto dagli ambienti cattolici e protestanti tedeschi - è rigoroso, quasi didattico, senza sbavature e concessione ad alcun tipo di spettacolarità, di interpretazione irriverente, anche quando si tratta di una debolezza nel voto di castità di una suora, o quando lo scontro con la comunità maschile si fa violento, o nasce la disputa con una vecchia badessa in visita che, citando san Paolo e il ruolo della donna nella società, assiste allibita all'allestimento, tra le mura del convento e con le suore candidamente vestite e a capelli sciolti, dell'Ordo virtutum, un'opera drammatica musicata dalla stessa Hildegard per celebrare la virtù e la bellezza, che sole vengono da Dio.
I dialoghi, pochi ed essenziali, si alternano alle ore di silenzio o sono lacerati dalle visioni, che appaiono come un infuocarsi del sole e un dilatarsi di pupille della straordinaria Barbara Sukowa, un'attrice che al profilo nordico e duro contrappone uno sguardo dolce e materno. Così dolce che non rifugge il pianto quando la giovane suora Richardis, per la quale si sentiva madre e anche figlia, le viene strappata per questioni politiche e familiari. Così duro da opporsi a qualsiasi tipo di potere che possa ostacolare la sua libertà di vivere la vocazione così come Dio stesso le suggerisce e ordina, si tratti di curare un malato o praticare un esorcismo, fondare un convento con le suore strappate alle celle e messe a trasportare pietre, o partire a cavallo per una missione allora inconcepibile per una donna di sessant'anni, ossia predicare nelle cattedrali di Colonia, Treviri e Metz.
La fotografia crepuscolare, l'essenzialità delle scene e la colonna sonora offerta dalla musica composta dalla stessa Hildegard, amplificano una visione di cinema senza tempo e oggi ignoto ai più.