Gianfranco Ghirlanda - La mistica del vivere insieme. Stati di vita: unità e necessarie distinzioni

  1. I Movimenti ecclesiali e le Nuove Comunità opera dello Spirito per la Chiesa di oggi

[[Nel suo Discorso del 17 maggio 2008 ai Partecipanti al Seminario per vescovi sui movimenti ecclesiali, Benedetto XVI, dopo aver ribadito che “I movimenti ecclesiali e le nuove comunità sono una delle novità più importanti suscitate dallo Spirito Santo nella Chiesa per l’attuazione del Concilio Vaticano II”, affermava che “una tale novità attende ancora di essere adeguatamente compresa alla luce del disegno di Dio e della missione della Chiesa negli scenari del nostro tempo” e che allora i movimenti “Sono un dono del Signore, una risorsa preziosa per arricchire con i loro carismi tutta la comunità cristiana” 1.]]

Sinteticamente, possiamo considerare movimenti ecclesiali quelle forme associa­tive, che hanno la loro radice e origine in uno specifico dono dello Spirito, elemento aggregante varie vocazioni di ambo i sessi, vari ordini o categorie di fedeli (vescovi, presbiteri, diaconi, seminaristi, laici/he o coniugati/e o celibi o vedovi/e, religiosi/e, consacrati/e nel movimento nella forma contemplativa, apostolica o secolare, ecc.), caratte­rizzati sia per diversità di età che per diverse apparte­nen­ze socio-cultura­li. Inoltre, in essi c'è un coinvolgi­mento della persona nella sua globalità, anche se spesso secondo una diversa gradualità, in quanto viene comunque richiesto uno stile di vita conforme al carisma, che spesso comporta condivi­sione di beni e vita fraterna comune, sottomis­sione ad un'autorità, dedizione ad opere apostoliche del movimento, in molti con uno slancio missionario e una spiccata apertura ecumenica2.

[[Giovanni Paolo II, nel Messaggio inviato il 27 mag.1998 ai partecipanti al IV Congresso Mondiale dei movimenti e delle Nuove Comunità dichiarava che il termine movimento “sta ... a indicare una concreta realtà ecclesiale a partecipazione in prevalenza laicale, un itinerario di fede e di testimonianza cristiana che fonda il proprio metodo pedagogico su un carisma preciso” (n.4)3.

Un'ulteriore precisazione il medesimo Pontefice l'offriva nel Discorso pronunciato ai partecipanti allo stesso Congresso, il 30 maggio 1998, quando, dopo aver detto che è l'amicizia in Cristo a dare origine ai movimenti, affermava che essi “riconosciuti ufficialmente dall'autorità ecclesiasti­ca si propongono come forme di auto-realizzazione e riflessi dell'unica Chiesa” (n.6)4.

Per Giovanni Paolo II la denominazione di “movimento” è attribuita dal fatto che, come la Chiesa, è un “avvenimento nel tempo e nello spazio della missione del Figlio per opera del Padre nella potenza dello Spirito”5, quindi]] possiamo dire che l’attributo di "ecclesia­le" sembra venire non semplicemente dal fatto che si tratta di una realtà che vive nella Chiesa, in quanto questo vale per qualsiasi legittima forma aggregativa, ma proprio dal fatto che il suo intento è quello di presenta­re nella Chiesa stessa il realizzarsi della comunione tra varie vocazioni. Questo mi sembra voglia significare ciò che diceva Giovanni Paolo II che "si propongono come forme di autorealiz­za­zione e riflessi dell'unica Chiesa". Inoltre è da sottolineare il fatto che essi vengano designati come “un itinerario di fede e di testimonianza cristiana che fonda il proprio metodo pedagogico su un carisma”.

Un carisma collettivo è sempre dato per il bene di tutta la Chiesa (LG 7c), quindi dev'essere in essa esercitato come un servizio, che realizza quel segno che il carisma vuole essere nella Chiesa.

Questo, riguardo ai movimenti, ci mette nella prospettiva della Chiesa come comunione, di cui, appunto, i movimenti vogliono essere un segno, una ripresentazione.

La categoria di fedele di Cristo, espressiva dell’uguaglianza fondamentale tra tutti i battezzati, viene a rompere, sia nel Concilio che nel Codice, lo schema di una Chiesa in cui tra i fedeli si danno come delle distinzioni in classi; in più il Concilio usa il termine “ordine di persone” come sinonimo di “categoria di persone” o “stato” (SC 26; LG 11b; 12b; 13c; 39; 40b), che, definito in relazione alla funzione che le persone sono chiamate a svolgere nella comunità ecclesia­le in virtù di una vocazione, esprime l’aspetto dinamico di una categoria di persone e quindi non induce ad una stratifi­cazione nel popolo di Dio, ma ad una complementarietà tra le diverse vocazioni6. Un “ordine”, infatti, è dato da un insieme di persone che, in dipendenza del fatto di aver ricevuto lo stesso dono dello Spirito per una stessa vocazione-missione, sono tenute agli stessi obblighi e godono degli stessi diritti.

La Chiesa è caratterizza­ta dalla diversità e complementarietà delle vocazioni e condizioni di vita, dei ministeri, dei carismi e delle responsabi­lità, la cui fonte, perfezionatore e unificatore è lo Spirito (LG 7c.f.h; 12b; ChL 20; VC 29; 31-32). In questo modo la Chiesa è una comunione organica, fondata sull’uguaglianza di tutti i fedeli nella dignità e nell'agire, in virtù del battesimo, ma articolata nella varietà di servizi e ministeri in relazione all'attuazione della missione della Chiesa (cc.204,§1; 208).

[[La Chiesa si compone di vari ordini di persone, ciascuno dei quali comprende tutti coloro che hanno ricevuto lo stesso dono dello Spirito, svolgono lo stesso servizio o ministero nella Chiesa, e per questo sono tenuti agli stessi obblighi e godono gli stessi diritti (LG 13c).]] Giovanni Paolo II nell’Es.ap. postsinodale Vita consecrata non parla di ordini di persone, ma nel n. 31 di tre vocazioni paradigmatiche, quella alla vita laicale, al ministero ordinato e alla vita consacrata; paradigmatiche “dal momento che tutte le vocazioni particolari, sotto l’uno o l’altro aspetto, si richiamano o si riconducono ad esse, assunte separatamente o congiuntamente, secondo la ricchezza del dono di Dio”. Secondo il n.32 della stessa Esortazione, in relazione a queste tre vocazioni paradigmati­che nella Chiesa, si configura­no tre “fondamentali stati di vita”, a ciascuno dei quali “è affidato il compito di esprimere, nel suo proprio ordine, l’una o l’altra dimensione dell’unico mistero di Cristo” (VC 16), che ne determina l’identità e la missione nella Chiesa. Considerare i diversi stati di vita sotto l’unico denominatore del genere “fedele di Cristo”, nella prospettiva dinamica della missione li avvicina al concetto di “ordine”.

I vari e molteplici ordini nella Chiesa sono poi gerarchicamen­te relazionati fra di loro, intorno alla funzione dell'ordine dei ministri sacri, che è proprio quella di mantenere l'unità di tutta la comunione: [[a livello universale, il Romano Pontefice e il Collegio Episcopale (LG 13c; 18b; 22b; NEP 3; UR 2c; AG 22b; 38a; c.331; 336); a livello particolare diocesano, i singoli vescovi (LG 23a; c.369); a livello locale parrocchiale, il parroco (LG 28b.d; PO 6a; cc.515,§1; 519). La Chiesa, infatti, è una comunione organica gerarchi­ca (MR 4).]]

Lo specifico dei movimenti ecclesiali è allora quello di presenta­re nella Chiesa stessa la comunione tra le varie vocazioni. Evidentemente ciò si deve manifestare proprio nel loro agire concorde con tutte le altre componenti ecclesiali.

Il rispetto del carisma, come delineato nello statuto, in quanto dono dello Spirito a tutta la Chiesa, e la carità, debbono essere i principi determinanti l'inseri­mento dei movimenti nella vita organica della Chiesa.

Vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che dal Magistero i movimenti ecclesiali attuali sono considerati una risposta provvidenziale, suscitata dallo Spirito Santo, prima e dopo il Vaticano II, alla drammatica sfida di fine millennio di fronte alla quale la Chiesa si trova, risposta che si presenta con un metodo pedagogico suo proprio.

I movimenti ecclesiali, con la loro azione congiunta e la particolare pedagogia della comunione e della solidarietà, sono chiamati a trasformare sia con un’attività comune sia individualmente, la società e la Chiesa stessa, dominate dall’individualismo disgregante e quindi dal prevalere dell’interesse particolare su quello comune. Proprio per essere un segno ancora più visibile di tutto questo, i membri che assumono i consigli evangelici generalmente vivono in una forma di vita fraterna in comune, ma non con i caratteri della vita religiosa, senza segni esterni visibili, ma dando testimonianza di vita evangelica. In questo modo si distinguono sia dagli istituti religiosi che da quelli secolari, mentre forse assomigliano di più alle società di vita apostolica, [[che secondo il c. 731§1 si “avvicinano” (“accedunt”) agli istituti di vita consacrata, pur, i loro membri, non cambiando lo stato di vita nella Chiesa anche se dovessero assumere espressamente i consigli evangelici (c. 732,§2).]] È da dire che talvolta conducono vita fraterna in comune, insieme a coloro che assumono i consigli evangelici, anche membri che non li assumono.

Un altro aspetto da mettere in rilievo, espresso nello stesso Discorso di Giovanni Paolo II del 30 maggio 1998, da noi sopra già citato, è quello dell’annuncio forte della fede sulla base di una profonda identità battesimale. È questo annuncio forte della fede che si presenta come particolarmente adatto alla rievangelizzazione di quei popoli di antica tradizione cristiana, che, invasi dalla secolarizzazione hanno perso il senso della fede, e all’evangelizzazione dei popoli che non hanno mai avuto l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo (ChL 34; 35).

[[Nel suo Messaggio inviato il 27 mag.1998, da noi citato all’inizio,]] Giovanni Paolo II diceva che il termine “movimento” indica “un itinerario di fede e di testimonianza cristiana che fonda il proprio metodo pedagogico su un carisma preciso donato alla persona del fondatore in circostanze e modi determinati” (n.4).

Il discernimento sull'autenticità ecclesiale di un Movimento ecclesiale va fatto, allora, innanzitutto circa la sua portata pedagogica in relazione all'attivazione della vita cristiana non solo all’interno del movimento stesso, ma all’interno della Chiesa e in relazione alla società, a partire proprio dall'esperienza della reciprocità e complementa­rietà delle diverse vocazioni nella Chiesa. Infatti, nel Movimento ogni categoria di persone deve trovare un forte impulso per la sua fede, proprio in un contesto educativo progressivo, che deve portare sempre più ad un coinvolgimento globale di vita evangelica e di concreto inserimento nella Chiesa e nella società.

Un Movimento, proprio per comprendere in sé tutte le componenti della Chiesa e riprodurre spesso molte delle attività della Chiesa, può correre il pericolo di non ritenersi una delle forme di auto-realizzazione e un riflesso dell'unica Chiesa, ma come l'autorea­lizzazione della Chiesa o l'espressione della Chiesa7. La verifica, allora, della validità del metodo pedagogico-spirituale, deve avvenire sulla base del fatto che l'esperienza di fede personale e di comunione con tutti gli altri membri del Movimento, nella loro varietà di vocazioni e condizioni, si deve oggettivare nella concreta vita della Chiesa, quindi nell'inserimento armonico con tutte le altre componenti ecclesiali. In questo modo il Movimento sarà un segno, un richiamo, che nella Chiesa si realizzi quella comunione organica tra vari ordini di persone, come specchio dell'amore trinitario (LG 4b), e nello stesso tempo sarà una via pedagogica a che ciò effettivamente si realizzi. È evidente che un Movimento si dovrà porre come segno e via pedagogica innanzitutto nella Chiesa particolare e nelle sue strutture, come luogo immediata­mente percepibile del realizzarsi oggettivo della Chiesa di Cristo.

Se un Movimento nel suo progredire nella vita della Chiesa particolare, che ulteriormente si localizza in modo specifico nella parrocchia, non si realizza in questo senso, vuol dire che il suo metodo pedagogico-spirituale non è autenticamente formativo dei suoi membri, quindi o va corretto o addirittura, in casi estremi, va disconosciuto. Per questa ragione il primo ad essere implicato nel discerni­mento è il vescovo diocesano.

Recentemente si sono fatte strada quelle che vengono chiamate in modo generale “Nuove comunità” (VC 62). Spesso si tratta di realtà nate da Movimenti ecclesiali, che riuniscono sacerdoti, uomini e donne, celibi e coniugati, in una forma di vita fraterna comune di tipo apostolico o monastico oppure di tipo secolare. Sotto certi aspetti assomigliano alla vita consacrata religiosa canonica, con una visibilità pubblica data anche dall’abito di tipo tradizionale, oppure a quella consacrata secolare, comunque sottolineando in modo particolare la vita di fraternità e di semplicità, in genere con un’accentuata austerità di vita. Da queste “Nuove comunità”, che vogliono rimanere associazioni di fedeli, si distinguono le cosiddette “Nuove forme di vita consacrata” (c. 605; VC 12) o “Nuove forme di consacrazione” (VC 62) o “Famiglie ecclesiali di vita consacrata” o “Fraternità di vita consacrata”8. Queste realtà, pur rispondendo a tutti gli elementi formalmente delineati nel c. 573 perché si configuri un Istituto di vita consacrata, in quanto tutti i membri di pieno diritto assumono i consigli evangelici con un qualche sacro vincolo, tuttavia, per il fatto che generalmente si articolano in un ramo maschile sacerdotale, un ramo maschile laicale e un ramo femminile, uniti da un unico carisma, un unico fine e un unico governo, nella loro organizzazione di vita e di governo non corrispondono agli Istituti di vita consacrata attualmente sanciti dal Codice 9. Ai rami di consacrati sono aggregati o si affiancano i coniugati che non possono essere in senso proprio membri dell’istituto, anche se assumono degli impegni che li lega in modo differenziato ad esso, condividendone il carisma, la spiritualità e la finalità apostolica.

Attualmente nell’Annuario Pontificio 2013 tali realtà risultano essere sette, ma sotto il titolo “Altri Istituti di vita consacrata”.

[[La novità rispetto agli Istituti di Vita consacrata attualmente sanciti nel CIC 1983, secolari e religiosi, la si potrebbe vedere proprio nel fatto di comprendere, come particolare segno di comunione in una società che nell’affermazione dello specifico sempre più si frammenta nell’individualismo, nell’unicità di un Istituto, una varietà di categorie di membri di pieno diritto e non. Con questo porterebbero nella vita consacrata come stato ora canonicamente sancito, quello che abbiano visto essere un aspetto proprio dei movimenti ecclesiali. Si tratta, allora, di Istituti che, così configurati in questa forma articolata, attualmente non sono previsti nel Codice di Diritto Canonico, che presuppone solo Istituti maschili o femminili, laicali o clericali. D’altra parte il fatto di un ramo di laici, anche coniugati, aggregati ad un Istituto, almeno come associazione, non è nuova, perché è previsto già dal c. 303. Attualmente, molti sono gli Istituti religiosi ai quali dei laici, sia come singoli che come gruppo, si vogliono unire in una forma istituzionale, partecipandone il carisma, quindi la spiritualità e il fine apostolico, questo sulla base di una più organica condivisione dei beni spirituali nella Chiesa e della valorizzazione dell’apostolato dei laici.]]

  1. La vita fraterna in comune nel Movimenti e nelle Nuove comunità

In questo contesto carismatico e di missione s’inserisce la vita fraterna in comune che in alcune realtà conducono tutti i membri e in altre solo alcuni. I modi di attuazione sono moltissimi; potremmo quasi dire tanti quanti sono i Movimenti o Nuove comunità, per cui non si può tracciare una sola tipologia. Indicherò solo alcune forme, quelle di cui ho avuto qualche conoscenza diretta o indiretta.

La forma più flessibile è là dove solo i membri consacrati tutti o solo quelli che lo vogliono, vivono in comunità. In alcune realtà vivono in residenze distinte uomini e donne, mentre in altre vivono in una stessa residenza. In questo secondo caso condividono tutte le dimensioni della loro vita: pasti, preghiera comune liturgica o no, revisioni di vita o riunioni di carità, studio, attività apostolica. Lì dove non vivono nella stessa residenza, la condivisione è spesso solo nella preghiera liturgica e nell’attività apostolica. Sia nell’uno che nell’altro caso i membri del movimento che non fanno vita comune partecipano all’attività apostolica comune, a momenti formativi e di riflessione comune, nonché a tempi di preghiera comune. Spesso si tratta di una partecipazione differenziata a queste attività a seconda delle possibilità di ciascuno e quindi al grado di impegno assunto nel movimento.

In altre forme di vita, laici uomini e donne celibi, che assumono i classici tre consigli evangelici nel movimento stesso; laici uomini e donne, che non assumono i consigli evangelici; sacerdoti, che appartengono al movimento pur essendo incardinati in una diocesi; coniugati con i loro figli; talvolta anche religiosi e religiose, attuano una forma più o meno stretta di vita comunitaria. Questa può comportare proprio il vivere insieme di queste diverse categorie di fedeli, cioè condividendo lo stesso tetto, i pasti, la preghiera comune liturgica o no e la missione apostolica.

Spesso la residenza della comunità è in monasteri che sono stati lasciati da comunità religiose, talvolta assumendo una forma di vita piuttosto rurale.

Tutte queste forme di vita comunitaria comportano in modo più o meno totale la condivisione dei beni. Talvolta, richiedono a favore del movimento anche la rinuncia ad ogni proprietà oppure la devoluzione di parte dello stipendio da parte di coloro che hanno un lavoro proprio.

Tutto questo vuole essere segno nella Chiesa che ciò che unisce tutti i fedeli è il battesimo, la realtà fondamentale per la salvezza, mentre le differenze sono date dalla diversità dei servizi a cui si è chiamati, ad intra della comunità e ad extra. L’idea dominante è quella della complementarietà delle persone e delle vocazioni nella loro singolarità e quindi della solidarietà tra di esse nel mutuo servizio. Ciò viene ricercato nella quotidianità della vita. Insomma, la vita di una comunità vuole riflettere quello che è la Chiesa e in un certo modo come dovrebbe essere la Chiesa nel vivere secondo il Vangelo.

Là dove i coniugi con i figli vivono in comunità formate da persone celibi consacrate o no, da sacerdoti e da altre famiglie, in alcune si vuole realizzare un tipo di famiglia aperta, che non vive un’affettività ripiegata su se stessa, ma volta a ricevere l’esperienza altrui per costruirsi come famiglia e a dare la propria esperienza per costruire la vita familiare altrui. Anche l’educazione dei figli viene vissuta non come un terreno esclusivo dei genitori, ma in un certo senso è affidata a tutta la comunità. In altre comunità i coniugi realizzano uno stile di vita diverso. Vivono nell’ambito degli altri membri della comunità, ma hanno una propria casa e condividono solo alcuni atti con gli altri, come la preghiera liturgica, la riflessione comune, il lavoro apostolico e alcuni pasti in giorni particolari. In questo modo la famiglia ha una sua sfera di intimità e l’educazione dei figli è curata dai genitori, anche si aperta al rapporto con gli altri membri.

In alcune comunità i membri, anche coniugati, rinunciano ad un lavoro e si dedicano unicamente a lavorare nella comunità o all’attività apostolica. In altre, come dicevo, assumono i consigli evangelici, di povertà, castità coniugale e obbedienza e si rendono disponibili ad andare in missione con tutta la famiglia.

I movimenti ecclesiali si presentano come una sfida provvidenziale alla società secolarizzata postmoderna e alla Chiesa, come superamento: dello smarrimento soggettivo nella delineazione di una chiara identità di fede; dell’individualismo nell’apertura alla solidarietà e alla comunione con gli altri; del soggettivismo morale e di fede nell’adesione sincera al magistero della Chiesa, in modo particolare quello del Romano Pontefice; nel superamento dei particolarismi nel servizio universale della Chiesa e della società.

Tuttavia, questi stessi caratteri positivi, talvolta diventano punti deboli per i Movimenti stessi, che debbono continuamente discernere su se stessi. Non dico che quanto andrò dicendo si verifichi in maniera generalizzata, ma dato che alcune situazioni si sono verificate e potrebbero verificarsi ancora, le indico come elementi almeno di discussione e di discernimento.

La ricerca di un’identità forte può nascondere una notevole insicurezza personale e immaturità dei membri dei Movimenti e delle Nuove comunità, per cui la loro integrazione nel gruppo può essere un rifugio, che impedisce una loro vera maturazione. Questo può essere facilitato da una normatività interna, riguardante specialmente la vita comunitaria, molto rigida e dettagliata e da un sistema di governo e di obbedienza, che non lascia spazio alla responsabilità personale e quindi alla maturazione della persona. Il rischio può essere quello di confondere unità con uniformità. È quanto mai necessario un serio discernimento sia del movimento che dell’autorità ecclesiastica circa la maturità umana dei membri e il metodo formativo applicato.

Spesso nei Movimenti il sacerdote non è la guida della comunità, ma svolge piuttosto una funzione che si riduce solo a quella strettamente sacramentale, decurtando il suo servizio della funzione di insegnamento e di guida. Il che contraddice l’intento di voler ripresentare nella Chiesa la comunione tra tutte le vocazioni, ciascuna secondo la sua specificità. Ci si dovrebbe porre la domanda di come restituire al sacerdote la sua funzione di guida della comunità, come servizio nella complementarietà con le altre vocazioni.

Un altro elemento talvolta nevralgico è quello delle comunità miste, nelle varie forme sopra descritte. Questo tipo di comunità hanno talvolta creato dei problemi riguardo alla tutela della castità, per cui attualmente si procura che le residenze degli uomini e delle donne siano distinte e gli uni e gli altri abbiano spazi e tempi di vita propri. Questo però non sembra sempre essere realizzato. Personalmente credo che ci si dovrebbe domandare sul senso del celibato consacrato. Tali comunità vogliono essere segno della complementarietà spirituale tra uomini e donne, anche dei consacrati nel celibato. Ma la domanda che sorge, specialmente di fronte ad alcuni problemi che si sono presentati, è se tale complementarietà non sia proprio ciò che dev’essere vissuto nella quotidianità della vita matrimoniale, altrimenti la differenza tra una vita celibataria consacrata e il matrimonio sarebbe ridotta semplicemente all’attuazione o no del rapporto sessuale. La castità nel celibato significa, infatti, non solo la rinuncia ai rapporti sessuali, ma alla complementarietà nella quotidianità della vita, che è ciò che costituisce il focolare domestico. La radicalità della proposta di Gesù a seguirlo, che troviamo in Lc 9,57-62, si riassume nell’abbandono di quell’ambiente affettivo che appunto è significato da un focolare. È evidente che la complementarietà la persona celibe la dovrà vivere nella sua attività pastorale, che però non abbraccia la quotidianità della sua vita privata.

[[Un’altra difficoltà si presenta riguardo ai coniugi e le famiglie membra dei Movimenti. Negli Statuti di alcuni movimenti si parla o si è parlato di “vita consacrata” per i coniugi prevedendo che assumano i consigli evangelici, senza distinzione rispetto ai consigli evangelici assunti da una persona celibe.]] Alla situazione dei coniugi fa accenno Giovanni Paolo II nell’Es. ap. postsinodale Vita consecrata, n. 62.

[[Riguardo ai coniugati, infatti, è da precisare che la castità coniugale è un dovere scaturente dallo stesso sacramento del matrimonio, quindi il confermarlo anche con un voto o altro sacro legame, sebbene manifesti e sostenga un dinamismo spiritua­le certamen­te opera dello Spirito, non configura una nuova consacrazione rispetto a quella battesimale e a quella "quasi consacrazione" ricevuta nello stesso sacramento del matrimonio. Anche il caso di due sposi che, dopo anni di matrimonio, per ispirazione dello Spirito, dovessero assumere con voto o altro vincolo l'impegno di vivere fra di loro una vita di relazione fraterna, non potrebbe, a mio parere, essere ritenuto come una condizio­ne assimilabile a quella della castità celibataria, sebbene, bisogna riconoscerlo, si avvicinerebbe in una qualche misura ad essa. Sempre riguardo ai coniugati è preziosa anche la precisa­zione che nel professare la povertà e l'obbedienza i genitori non debbono trascurare i loro doveri verso i figli. Infatti, loro non hanno il diritto di condizionare in modo determinan­te le scelte di vita dei figli, quindi sembra una norma molto prudente il non permettere un vincolo di povertà e di obbedienza di coniugi finché i figli non saranno maggiorenni. Un vincolo di povertà, fino talvolta alla rinuncia di tutti i beni, sembra violare il diritto dei figli ad una certa stabilità economica in ordine al loro futuro; un voto di obbedienza, che comporti la mobilità missionaria, sembra violare il diritto dei figli ad una stabilità di relazioni sociali ed affettive, necessaria per il loro armonico sviluppo umano. Inoltre,]] lì dove i coniugi con i figli ancora piccoli vivono in comunità con altri fedeli, possono mettere in pericolo l’individuazione chiara da parte dei figli della figura paterna e materna che potrebbero diluirsi nella comunità, mettendo in discrimine la loro maturazione psicologica. Inoltre, la famiglia ha bisogno di luoghi e tempi di intimità di vita, appunto di costituire un focolare, in cui i coniugi maturino nel loro rapporto e i figli il loro sviluppo psico-affettivo. Personalmente ritengo che, se un Movimento vuole essere segno di realizzazione delle diverse vocazioni nella Chiesa, ogni vocazione debba essere in esso vissuta così come lo è nella Chiesa stessa, con la propria specificità di stile di vita che la differenzia dalle altre, altrimenti si può cadere in un’omologazione che non rispecchia più la vita della Chiesa.

Inoltre, una vita in comunità di laici - consacrati o no, coniugati o no – che si sottraggono all’inserzione nel temporale, che secondo il Vaticano II è il proprio e peculiare della vocazione laicale e tanto necessaria alla società di oggi, non li porti ad un’alienazione proprio da quello che dovrebbe essere la loro vocazione specifica.

Altro punto nevralgico è quello della formazione e dell’incardinazione dei chierici. Alla questione della formazione accenna Giovanni Paolo II al n. 68 dell’Es.ap. postsinodale Pastores dabo vobis, indicando dei punti di riferimento utili, ma non mi sembra che risolva la questione. Attualmente, i membri di Movimenti sono generalmente formati al sacerdozio nei seminari del clero secolare, con i problemi interni che questo comporta, oppure ottengono dal Vescovo il riconoscimento di una loro residenza come casa di formazione e che come alunni seguano la formazione intellettuale nel seminario. La prima soluzione sembra opportuna come tutela di una seria formazione al sacerdozio, che potrebbe essere difettosa specialmente nei Movimenti di recente fondazione per mancanza di personale qualificato, ma violerebbe l’elemento della vita in comune se richiesta dal Movimento per i suoi membri seminaristi e sacerdoti; la seconda, tutelerebbe questo elemento, ma sarebbe da realizzarsi solo quando effettivamente sarebbe garantita una seria formazione degli stessi formatori. Tuttavia, anche in questo secondo caso, il problema si sposterebbe a dopo la formazione e all’incardinazione nella diocesi dei singoli membri del Movimento. Attualmente, i chierici sono incardinati da un vescovo benevolo nella diocesi, col permesso, attraverso una convenzione, che siano impegnati nelle opere o attività pastorali del movimento. Tuttavia, talvolta è capitato che con il cambio del Vescovo, il nuovo abbia inviato i preti come parroci o vice parroci in parrocchie, non permettendo loro la vita in comune. Il che è stato sentito da tali sacerdoti come una violenza alla loro vocazione comunitaria. Per ovviare a questa situazione alcuni Movimenti hanno riunito i proprio chierici, che continuerebbero a essere membri di comunità del Movimento, in una Società di vita apostolica o in un’associazione pubblica di chierici con facoltà di incardinare, con la finalità del servizio nelle attività pastorali del Movimento. Anche questa non si rivela una soluzione ottimale, in quanto potrebbe rischiare di danneggiare l’unità organica del Movimento. L’unica soluzione dovrebbe essere quella di ammettere, anche nella Chiesa latina, come previsto nel Codice delle Chiese Orientali, l’incardinazione nei movimenti di diritto pontificio, quindi già di sufficientemente lunga vita, di comprovata dottrina spirituale e di solida formazione dei formatori. In questo modo verrebbe tutelato il carisma del Movimento a servizio delle Chiese particolari e la vita in comune dei sacerdoti

 

Gianfranco Ghirlanda S.J.

Pontificia Università Gregoriana

Facoltà di Diritto Canonico

 

1 Pontificium Consilium pro Laicis, Pastori e Movimenti ecclesiali. Seminario di studio per i Vescovi, Città del Vaticano 2009, 14; 15.

2 Cf. Giovanni Paolo II, Es. ap. postsinodale Vita consacrata (=VC), 25 mar. 1996, n. 62, in AAS 88 (1996) 377-486; EV 15/434-775; Istrumen­tum laboris per la IXa Assemblea generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, al n.37, Città del Vaticano 1994.

3  Regno/Doc. 43 (1998) 399.

4  Ibid. 412; Pontificium Consilium pro Laicis, I movimenti nella Chiesa (Coll. Laici oggi), Città del Vaticano 1999, 222.

5 Messaggio inviato il 27 mag.1998 ai partecipanti al IV Congresso Mondiale dei Movimenti e delle Nuove Comunità, in Regno/Doc. 43 (1998) 399.

6 Cf. Giovanni Paolo II, Allocuzione di presentazione ufficiale del CIC 1983, 3 febbr. 1983, in AAS 75/I, 1983, 459-460.

7  Giovanni Paolo II in un suo Discorso del 30 agosto 1984 ai partecipanti al Convegno nazionale per la pastorale sociale e del lavoro della Conferenza Episcopale Italiana, tenutosi ad Ariccia (Roma) sul tema "Comunità cristiana e associazioni dei laici", affermava: "Non posso tuttavia non attirare l'attenzione delle aggregazioni dei laici su alcuni pericoli, che potrebbero compromettere il senso ecclesia­le.

C'è infatti il pericolo di un certo autocompia­cimen­to, da parte di chi assolutiz­za la propria esperienza, favorendo in tal modo da una parte una lettura in chiave riduttiva del messaggio cristiano e dall'altra il rifiuto di un sano pluralismo di forme associative. Altro pericolo potrebbe essere nello strania­mento dalla vita pastorale delle Chiese locali e dei pastori, privile­giando il rapporto con la sola associazione e i suoi dirigenti.

Questi pericoli possono essere superati se le aggregazioni di laici vivono nella piena comunione ecclesiale col Vescovo [...]. Non c'è comunione ecclesiale senza comunione col Vescovo; egli infatti consente la verifica quotidiana della comunione nella fede alle aggregazioni, stimolandole ad un confronto con la realtà storica, confermandole e raccogliendole nell'unità, creando spazi sempre nuovi per una comunione autentica e sincera" (L'Osservatore Romano, 31 agosto 1984, 5).

A questo fa eco quanto affermava anche una Nota pastorale della Commissione per il laicato della Conferenza Episcopale Italiana: "«Ecclesial­ità», infatti, è termine esigen­te: significa sapere di appartene­re alla Chiesa, e, più ancora, sapere di «essere Chiesa» e avere il «senso della Chiesa». Per ogni aggregazione dei fedeli l'eccle­sialità è data dal suo riferimento alla vita concreta della Chiesa: compete ad essa in quanto e per quanto ciascuna è espressione della Chiesa, vive di essa, in essa e per essa.

Sapere di essere Chiesa, poi, è ben diverso dal ritenersi di «essere la Chiesa». Il mistero della Chiesa, infatti, è qualcosa di ben più grande dei singoli cristiani di ogni aggrega­zione. Esso è talmente ricco da esprimersi in forme molteplici e diverse senza che alcuna di queste, e neppure tutte insieme, possano esaurirlo" (Le aggregazioni laicali nella Chiesa, 29 apr. 1993, nn.12-13, in Enchiridion CEI 5/1568-1569).

 

8 Cf. Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Decreto del 25 giugno 1990 di autorizzazione al riconoscimento della “Opera della Chiesa” (Documento 1); Decreto del 15 aprile 2000 di approvazione della “Fraternità Missionaria Verbum Dei” (Documento 5); Decreto di approvazione del 29 agosto 2001, de “L’Opera” (Documento 6), in Nuove forme di vita consacrata (Appendice) (ed. R.Fusco – G.Rocca), Città del Vaticano, 267-268.

9 Cf. Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Criteri per l’approvazione elle nuove forme di vita consacrata. Congresso del 26 gennaio 1990, in Nuove forme di vita consacrata, 267-268; F.Rodé, La vita consacrata nel processo culturale in occidente, in Nuove forme di vita consacrata, 16. Il governo generale è affidato spesso a un membro del ramo sacerdotale, ma non necessariamente, per cui può essere affidato anche a un laico o a una laica. Chi ha il governo generale è assistito dai Moderatori dei vari rami, che formano il suo consiglio. Se a capo è un laico o una laica, i sacerdoti, per tutto ciò che riguarda l’ordine sacro, dipendono dal Moderatore del ramo sacerdotale, come vicario del Moderatore/trice generale.

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Its responsibilities and duties
have been taken over by the
Dicastery for Laity, Family and Life.

 

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