Giugno del 1963. Nell’angolo in fondo al salotto la televisione è stata lasciata accesa, inusualmente; le immagini da Piazza S. Pietro, tante tante persone che si accalcano per salutare per l’ultima volta il Papa, Giovanni XXIII, la salma, il volto cereo, le parole del cronista, le parole e, probabilmente, l’espressione del viso di mia nonna, mio padre, mia madre, quando dicono: “E’ morto il Papa”; e quando mi raccontano del suo modo di mostrare Gesù, della sua delicatezza verso tutti, della sua carezza per i bambini. Ho 4 anni, tutto mi si imprime nella mente – è uno dei primissimi ricordi della mia vita – e nel cuore, come su cera molle, Giovanni XXIII segna indelebilmente la mia vita con un sigillo molto particolare e prezioso: l’amore grato per il Papa, che da allora è un ancoraggio profondo e saldo della mia persona.
Giovanni Paolo II irrompe nei miei vent’anni, accompagna e determina quegli anni di crescita, di scelte, di cammino verso la mia vita adulta.
Il suo “non abbiate paura” è per me una vera chiamata al combattimento; il Redentore dell’uomo, Gesù Cristo, centro del cosmo e della storia, mi è richiamato ogni giorno come centro dell’affetto del mio cuore: il libro dell’enciclica, la copertina con il volto del Cristo di Masaccio, liscia, lucida, le stanze spoglie in cui ci trovavamo con il gruppetto di catechesi per lavorarci su, per un anno; e avevamo vent’anni.
Quegli anni hanno rivoltato, ribaltato le nostre vite. Nel punto in cui si prende, non “una” decisione, ma “la” decisione per l’esistenza, che è “a Chi appartiene la mia vita”, abbiamo incontrato in Giovanni Paolo II una testimonianza trasparente di cosa accade in un uomo conquistato da Cristo.
Il mio fidanzamento con Nanni dal 1978 al 1985, le amicizie significative che ci accompagnano, gli studi di medicina dal 1977 al 1983, le battaglie condivise con gli amici, come quella contro la legalizzazione dell’aborto nel 1981, che ci fanno prendere una posizione e ci insegnano cosa vuol dire avere (e mostrare) un volto cristiano nella società: tutto è attraversato, vagliato, giudicato dalla testimonianza di Giovanni Paolo II. Ci diventa chiaro che per il cristiano non è possibile «tenersi da parte, quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più patria» (Alexis de Tocqueville). Il prendersi a cuore il destino del mondo, il donare se stessi, il proprio tempo, le proprie energie, per rendere la testimonianza a Gesù che Lui chiede e mette in grado di dare, è il più grande dono innanzitutto per se stessi e poi a quest'epoca nebbiosa. Fare il contrario, ciò che Tocqueville descrive, non basta, non è cristiano, non è umano.
Oggi, a 55 anni, dopo 29 anni di matrimonio, 4 figli, e 31 anni di attività di medico, decifro con gratitudine e commozione nell’ordito della mia vita i tanti segni dell’eredità di Giovanni Paolo II.
Il suo richiamo così nuovo, pur nell’alveo già pre-esistente dell’insegnamento della Chiesa, alla teologia del corpo, all’essenza e al significato dell’essere donna, mi hanno insegnato la bellezza e la fierezza di essere donna cristianamente, cioè di Cristo; il “non conformatevi” ha attraversato la mia vita; contro lo zeitgeist (1968, libero amore, l’utero-è-mio, la donna indipendente, il “tempo per me”, la parità tra i sessi) ho dovuto riscegliere continuamente il perché, la bellezza, e la miracolosità della castità, e del dono di sé; nel fidanzamento, nel matrimonio, nella scelta di obbedienza all’insegnamento dei metodi naturali che hanno significato la riconsegna di me (tutti i mesi!) ad un Disegno più grande. 1986, nasce la prima dei nostri figli, 1988, nasce il secondo; quasi quasi mi sentirei felicemente sistemata, con il numero corretto di figli; ma una sera insegnando al mio bimbo una canzone che dice “prendi pure la mia vita, io la dono a Te” capisco che la strada giusta va solo in quella direzione. Avrò altre gravidanze, di cui 2 concluse. Siamo i ragazzi di bottega, la bottega dell’orefice Giovanni Paolo II: lì abbiamo imparato la grandezza infinita dell'altro, e di noi stesse; lì abbiamo capito che la castità è l’unico modo adeguato all’infinito desiderio che io e l’altro siamo, che introduce una bellezza ed una freschezza sempre nuove in un rapporto altrimenti destinato inesorabilmente all’usura.
Ho imparato con Giovanni Paolo II ad affermare il valore del rapporto con mio marito “diversamente” rispetto alla cultura dominante, che ha avuto molta presa anche su di me: non il sentimento facile, non la ribellione, ma il lavoro di consegna di sé all’altro, nonostante la diversità, le difficoltà, gli anni che passano e le situazioni anche molto difficili che si attraversano.
Un altro tratto particolare dell’essere sacerdote in Giovanni Paolo II, è la sua vicinanza a famiglie di amici, con cui ha condiviso un cammino, per tutta la vita, e fino in fondo, e che traspare prepotentemente dalla concretezza e dalla genialità con cui ha saputo parlare della famiglia, del rapporto tra uomo e donna, del ruolo della donna. Negli anni, in sintonia con mio marito e poi anche con i nostri figli, anche la nostra famiglia accoglie, cerca ed offre compagnia ai sacerdoti, con il desiderio di sostenerli nella loro vocazione, con la consapevolezza che reciprocamente ci mostriamo la tenerezza di Dio.
Nell’amicizia cristiana, insieme a mio marito, abbiamo rialimentato continuamente la consapevolezza che educare i figli vuol dire scommettere tutto sulla fede e non sulle nostre capacità o sulle loro: in un’epoca di grande aridità, di mancanza di coraggio, la famiglia cristiana è diventata, come le abbazie nel Medioevo, custodia del valore dell’uomo in un’epoca di barbarie.
1983, mi laureo in medicina, 1985, mi sposo, e poi i figli da crescere: famiglia e lavoro, una sfida difficile o impossibile? La mia generazione di donne, quella delle baby-boomers, ha fatto per la prima volta nella storia un esperimento in corpore vivo: in grande maggioranza è una generazione che ha scelto di lavorare fuori casa. Questa scelta ha assunto per tante un valore di riscatto, di affrancamento, di affermazione della propria autonomia e indipendenza, anche rispetto al contesto familiare. Il leit-motiv per la mia generazione di donne è diventato quindi prepotentemente: se lavori vali, il lavoro ha la massima priorità, la carriera e poi, se si può, tutto il resto. Di nuovo, per non conformarmi a questa tragica confusione, ho cercato continuamente l’insegnamento, la compagnia della Chiesa, che convertissero giorno dopo giorno il mio amore ed attaccamento al mio lavoro, e che me lo facessero vivere come servizio al tutto; compresa la mia famiglia.
Sì, cari Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, è tutto vero quello che mi avete mostrato, e che rimane nei miei occhi: nella fatica e nell’obbedienza alle circostanze di ogni giorno, in Cristo, la mia vita di donna, di moglie, di madre, di figlia e sorella, di amica, di medico, è inimmaginabilmente più bella di ciò che sognavo da ragazza.
Elisabetta Buscarini - Gastroenterologo, Ospedale Maggiore di Crema