Come carezze al vento

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In occasione del Viaggio Apostolico di Papa Francesco nella Repubblica di Corea (13-18 agosto 2014), l’Osservatore Romano pubblicò un intervista di Cristian Martini Grimaldi a Yuna Kim, pattinatrice olimpica convertitasi al cattolicesimo.

Yu-na è nata nel 1990 a Bucheon. Ha iniziato a pattinare all'età di sette anni, dopo aver cominciato ad imparare dalla madre. E’ stata vincitrice della medaglia d'oro alle Olimpiadi Invernali di Vancouver 2010 e della medaglia d'argento alle Olimpiadi invernali di Soči 2014, oltre campionessa mondiale nel 2009 e nel 2013. Nel 2008 è stata battezzata come cattolica insieme a sua madre, prendendo il nome della santa Stella.

 

Come carezze al vento

 

Robert Thaves, fumettista americano, una volta disse a proposito di Fred Astaire: «Certo è molto bravo, ma non dimenticate che Ginger Rogers faceva tutto quello che faceva lui però all’indietro e sui tacchi a spillo». La stessa cosa si potrebbe dire a proposito dei campioni di pattinaggio artistico, con tutte quelle acrobazie, piroette e giravolte compiute su un enorme tappeto di ghiaccio calzando rigidi stivali, cercando di mantenere l’assoluto equilibrio su una sottile lama di acciaio. Yuna Kim, la ventitrenne campionessa sudcoreana di pattinaggio artistico, è stata campionessa mondiale nel 2009 e nel 2013, medaglia d’oro alle olimpiadi invernali di Vancouver nel 2010. Si è classificata seconda nelle recenti olimpiadi di Sochi. Il pattinaggio artistico è una di quelle rare discipline sportive dove non vieni giudicato solo per la velocità o la precisione nell’esecuzione. E Yuna Kim è la Ginger Rogers di questa disciplina. Le sue coreografie sembrano carezze al vento.

Yuna è elegante anche nell’accettare la sconfitta: tutti si aspettavano da lei dichiarazioni, se non di fuoco, quantomeno di incredulità dopo che la medaglia olimpica a Sochi gli era stata soffiata dall’idolo di casa, Adelina Sotnikova, per una discutibile valutazione dei giudici. Ma nulla. «Ho dato il mio meglio — ci dice quando la incontriamo nello studio sportivo che gestisce al centro del quartiere di Gangnam — e non recrimino nulla, il giudizio che ho avuto era quello che meritavo».

La modestia e la sobrietà con la quale questa giovane coreana affronta gli eventi sa di antiche pratiche orientali. Eppure Yuna è cattolica.

Ma cominciamo dal principio. Quando hai infilato i pattini la prima volta?

Avevo cinque anni e per 17 anni mia madre mi ha seguito nei miei allenamenti, ovunque andassi. Senza la sua presenza, il suo supporto non avrei potuto mai ottenere quello che ho avuto. Anche perché un bravo insegnante costa molto e bisogna pagare i costi di residenza all’estero. Ho cominciato a pattinare per divertimento insieme a mia sorella, avevo cinque anni, fu l’insegnante di allora che disse a mia madre che avevo buone potenzialità. Ma per sviluppare il potenziale dovevo dedicare almeno sette ore al giorno alla disciplina, e ovviamente in quel periodo non riuscivo neppure a frequentare le lezioni a scuola, gli unici amici che avevo erano i compagni di pattinaggio.

Quando è nata la tua fede?

Ho avuto un infortunio, anzi una serie di infortuni a partire dal 2006 che mi hanno costretto a fare avanti e indietro per l’ospedale. Lì ho fatto l’incontro provvidenziale con alcuni medici di fede cattolica con i quali ho stabilito un rapporto di fiducia. Mi citavano frasi dalla Bibbia e dal Nuovo Testamento per tenermi su di morale e darmi conforto, e tutto questo mi fu di grande aiuto per superare soprattutto le difficoltà psicologiche dovute alle continue ricadute fisiche dell'infortunio.

Cosa ti colpiva delle parole di quei dottori?

Direi che la cosa che più mi ha impressionato era che non cercavano di convertirmi, il loro era più un gesto disinteressato nei confronti di una ragazza che passava un momento difficile della sua vita e della carriera professionale, cercavano di consigliarmi al meglio secondo quella che era la loro visione del mondo. Piano piano, conquistata dai loro modi e dalle loro parole di conforto, ho cominciato a riflettere sulla fede. Era il 2008. Avevo diciott’anni.

Come sono andate le cose?

Era il periodo più difficile nella mia vita, anche per mia madre che si è spesa tanto per me e per il mio successo, e mi trovavo in una situazione critica che non sembrava più avere fine. Erano ormai due anni che i miei problemi alla schiena si ripresentavano, non sembravano mai finire. A un certo punto ti ritrovi a un bivio: ti chiedi se valga veramente la pena andare avanti, e se sì dove puoi trovare la forza per continuare a sperare. Avevo bisogno di poter contare su qualcosa o qualcuno. La fede nel cattolicesimo mi ha dato tutto questo. Per me era una strada del tutto inedita. Sia mia madre che mio padre non erano credenti. Ma in ospedale ho fatto poi l’incontro con padre Lee. Non era solo il prete della clinica ma lui stesso un paziente a quel tempo, un destino comune sembrava legarci in qualche modo. Dopo l’incontro con padre Lee ho cominciato a comprendere più nei dettagli gli insegnamenti fondamentali del cattolicesimo, mi ha dato delle lezioni private sulla Bibbia e sul Vangelo, insomma mi ha introdotto alla fede: da lì la scelta di battezzarmi con mia madre. Era il 24 maggio di sei anni fa.

Possedere una fede profonda può trasformarsi, involontariamente, anche in un vantaggio per il raggiungimento del successo sportivo?

Non posso parlare per gli altri. Per quanto riguarda la mia situazione mi ha aiutato molto ad affrontare gli infortuni ma anche mentalmente mi ha dato la capacità di affrontare la pressione da parte dei media e della critica. Oggi grazie a questo percorso di fede che ho intrapreso riesco ad avere anche la capacità di accettare meglio un insuccesso.

Preghi prima di ogni gara?

Prego ogni volta, prima di ogni gara, durante la competizione, è un modo per dimostrare a Dio la riconoscenza per tutto quello che la vita mi ha dato. Oggi più di prima apprezzo il valore di una buona condizione fisica, perché so che può essere una condizione solo temporanea, e lo stesso accade nelle sconfitte: non finisce il mondo se perdi una gara, a tutto c’è un rimedio. Se poi il rimedio sembra non arrivare mai, beh è solo il volere di Dio, ma non bisogna mai disperare.

Alle olimpiadi di Londra, la spadaccina Lam Shim, anche lei coreana, perse in semifinale: per protesta contro una decisione del giudice non volle più scendere dalla pedana. Dovette essere portata fuori dal segretario generale della federazione internazionale di scherma. Ti è mai capitato di reagire così a una sconfitta?

No, mai. Ma ognuno reagisce alle sconfitte in modo molto personale. Non mi sento di giudicare nessuno.

Porti sempre un anello a forma di rosario. Ti dà sicurezza?

Sì, mi ricorda che Dio è con me ogni momento, questo mi dà grande forza.

Il Papa sta per arrivare in Corea, ed è probabile che tu possa incontrarlo. Una domanda che vorresti rivolgergli?

Per un atleta è molto importante mantenere una condizione psicologica e fisica eccellente. Mi piacerebbe domandare al Papa se crede che anche per una persona di fede sia necessario mantenere una buona salute psico-fisica.

Se dovessi descrivere la Corea a Papa Francesco, cosa gli diresti?

Credo che gli parlerei della parola jeong. Ha un significato generalmente molto ampio, sta per affetto umano, legame tra la gente. Nella sua essenza si rende evidente in particolari circostanze. Ad esempio lo abbiamo visto dopo l’incidente del traghetto Sewol che ha portato alla morte di moltissimi giovani studenti. I coreani durante eventi particolarmente tragici, ma al contrario possono anche essere eventi molto gioiosi, tendono a compattarsi nel sentimento di dolore e di lutto, o di gioia appunto. Insomma è un modo efficace per elaborare il dolore che non rimane chiuso nella singola coscienza di ciascuno ma viene condiviso con tutti. Un altro caso in cui lo jeong si è reso particolarmente evidente fu durante la crisi economica del 1997 quando tre milioni e mezzo di coreani donarono al Paese centinaia di tonnellate di oro per arrestare la crisi. Penso che la prima volta che un individuo è esposto all'esperienza di jeong sia quando un bambino viene portato in braccio da sua madre. Poi man mano che cresce quell'esperienza dello jeong si allargherà per includere tutte le altre relazioni fondamentali, con il padre, con i fratelli, con i membri della comunità.

Spesso i coreani dicono che la vita in occidente è carente di “jeong”.

Certamente i coreani sanno come affrontare i momenti difficili della vita collettivamente. E forse questa è una cosa che manca all’occidente, tradizionalmente più individualista.

Sei felice quando pattini?

È il mio lavoro, non riesco a dire se sono felice o no. Ma quando ero piccola certamente mi divertivo di più (ride). Ora il mio divertimento è quello di insegnare tutto quello che ho imparato alle nuove generazioni».

Oltre a essere elegante, Kim Yuna è anche molto modesta: in realtà fa molto di più che insegnare pattinaggio ai giovani. Ha iniziato la sua attività filantropica già nel 2007, donando diversi milioni di dollari per le vittime del tifone Haiyan nelle Filippine e quelle dello tsunami in Giappone nel 2011 e per sostenere i sopravvissuti e le famiglie delle vittime della tragedia del traghetto Sewol. Ma forse memore del detto evangelico «quando fai l’elemosina non suonare la tromba», ha preferito tacere. E questo, in un mondo di vip che non fanno altro che strombazzare all’impazzata per un misero pugno di retweet in più, le fa grande onore.

 

Foto di Chung Sung-Jun / Comitato Olimpico di Korea

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